Editoriale - Lo sciopero dei paperoni


Damiano Tommasi, presidente dell'AIC (Associazione Italiana Calciatori) parla dello sciopero in una conferenza stampa. DayLife

E alla fine sciopero è stato. 
In verità non ci credevamo; in pochi avevano preso sul serio le velate minacce delle parti in causa. Forti di un passato incoraggiante (solo una volta nella storia la Serie A aveva scioperato), abbiamo marciato verso la 1° giornata con la convinzione che tutto si sarebbe risolto per il meglio, invece stavolta il passato ci ha raccontato una storia diversa dal presente: negli ultimi anni tante minacce (o ricatti) poi rivelatisi infondate, stavolta un iniziale silenzio si è spaccato nel fragore degli ultimi giorni. Forse il campionato spagnolo (che comunque questo weekend riprende a giocare dopo un turno di sciopero), forse i fatti dell’NBA o forse una più tangibile situazione di difficoltà hanno spinto società e calciatori a far saltare l’attesissima giornata inaugurale del campionato di Serie A. Neanche a dirlo questo ha scatenato la rabbia dei tifosi e non, che (giustamente) fanno  fatica a rassegnarsi all’idea che il mondo dorato del pallone protesti.

Certamente è uno sciopero che fa malissimo al nostro calcio, un potente gancio frontale dopo i tanti colpi ai fianchi che esso ha dovuto subire negli ultimi anni. E’ altrettanto vero che non è bello vedere milionari che scioperano "alla faccia" di chi sta molto peggio di loro e magari affida la propria domenica (e perché no, anche i propri soldi) ai suoi beniamini davanti alla tv o magari allo stadio. Questa però è anche una situazione che ci offre uno spunto di riflessione per non cadere nel facile clichè del paperon de’paperoni che sciopera per qualche spicciolo del faraonico stipendio.

Abbiamo visto inoltre che presidenti e giocatori sono andati a braccetto pestandosi i piedi in questa farsa. Chiarito che i pomi della discordia nel contratto collettivo sono gli articoli 4 e 7 (contributo di solidarietà e fuori rosa), vogliamo quindi dividere le colpe tra le parti in maniera eguale.

Per quanto riguarda l’articolo 4, il nodo è il contributo di solidarietà: lo devono pagare società o giocatori? L’istinto ci farebbe optare decisamente per la seconda scelta ma c’è da dire che non tutti i calciatori sono Ibrahimovic o Eto’o; ci sono tanti calciatori in Serie A che si affacciano alla categoria solo per un breve periodo, con stipendi certamente buoni ma non milionari e che devono bastare anche dopo che il giocatore si ritrova senza contratto a 32/33 anni (quando si è fortunati, di questi tempi). Ne conosco di giocatori per breve tempo nel calcio che conta e che a 45 anni non se la passano benissimo. In ogni caso, dei due articoli dell’accordo collettivo, questo sembrava decisamente il più risolvibile.

Un vero e proprio cappio irrisolvibile la questione dei fuori rosa: i club vogliono che i giocatori che non rientrano più nei piani della società si allenino a parte con allenatori diversi (in genere con le giovanili) e in orari diversi rispetto al resto della squadra. I giocatori, invece, non accettano questa “ghettizzazione”. Da questo punto di vista, la contesa è una partita a scacchi, nessuna delle due parti vuole smuoversi dalla propria posizione. I giocatori dovrebbero mostrarsi più disponibili al cambio di maglia e a venire incontro alle esigenze della società. E’ altresì vero che è compito dei presidenti badare a non costruire una squadra di 50 elementi, sapendo che di questi tempi è difficile piazzare gli esuberi.

Insomma sfoghiamoci, dobbiamo farlo, perché ci hanno privato (almeno fino al 10 settembre, situazione che penalizza sensibilmente le nostre squadre anche in vista della Champions) di una grande passione. Ma non prendiamocela solo con i calciatori, piuttosto con tutte le parti in causa che non hanno fatto niente per evitare un patatrac inaspettato.

Niccolò Bennati

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